Nel numero scorso, Daniele Leoni, nel suo articolo Anarchici e Scienza. A Cosa Dobbiamo Credere? ha sollevato una serie di questioni molto interessanti. Avendo sul punto a tratti una visione diversa delle cose, proverò ad articolarla in questa sorta di risposta.
Innanzitutto, la tesi di Levitt citata all’inizio dell’articolo per cui la scienza costituirebbe “un enorme, quasi assoluto, successo epistemologico” non mi convince affatto: ho l’impressione, invece, che la scienza – intesa come metodo scientifico più che comunità degli scienziati – sia tenuta in una sorta di limbo: in sostanza, utilizzata, e soprattutto diffusa, il meno possibile, giusto il minimo indispensabile alle necessità del potere politico ed economico. Insomma, le continue e sperticate lodi che riceve sono inversamente proporzionali al ruolo che effettivamente le si fa occupare nella dinamica sociale – lodi che però portano alla falsa impressione sintetizzata nella tesi di Levitt.
La scienza, intesa come metodo di ricerca della realtà effettiva delle cose indipendentemente dall’opinione di una fonte più o meno autorevole, che utilizza metodi sia logici sia empirici di controllo delle proprie ipotesi, è nata nell’antica Grecia, quasi duemilaseicento anni fa. Il fatto che questa forma del sapere sia divenuta così importante per noi ci fa dimenticare, spesso, una cosa importante: per tutta la durata del mondo antico, di quello medievale arabo/latino e della prima età moderna, filosofi, matematici, studiosi della natura erano una cultura del tutto minoritaria, immersa in un mondo dominato dalle superstizioni a carattere più o meno religioso, che dominavano la vita e l’immaginario della stragrande maggioranza delle persone. Questa minuscola comunità – composta dalle persone che ricercavano un sapere oggettivo, svincolato dal principio di autorità e che cogliesse l’autentica natura delle cose – nella migliore delle ipotesi veniva appena tollerata, nella peggiore repressa con ferocia.
Il motivo di tutto ciò è evidente: il potere si fonda certamente sulla forza, ma altrettanto sui meccanismi ideologici di controllo delle menti – meccanismi del tutto trasparenti, nella loro vacuità, alle forme del sapere razionale. Le varie forme del sapere oggettivo portano con se, inevitabilmente, una confidenza con pratiche dimostrative di ogni genere, deduttive ed induttive, e queste, se non vengono confinate adeguatamente, portano altrettanto inevitabilmente ad una maggiore facilità a riconoscere i meccanismi ideologici del potere, costituiti come sono di fallacie logiche e falsità empiriche: di qui l’odio feroce che i poteri di tutti i tempi hanno riservato a filosofi, matematici, studiosi della natura ed alle loro idee. Odio indipendente dai singoli pensatori: per quanto potesse essere prono ai desideri del potere un determinato studioso, nulla si poteva sapere su ciò che avrebbero fatto i suoi suoi allievi, diretti o indiretti. È cambiato qualcosa oggi? A mio avviso solo in apparenza.
In realtà, la scienza moderna di matrice galileiana ha scompigliato certamente le carte del gioco, nel senso che si è resa indispensabile al potere per il suo risvolto tecnologico. È da notare come i primi grandi protagonisti della rivoluzione scientifica moderna – Da Vinci, Galileo, Cartesio, solo per fare i nomi più noti – sono anche personaggi legati in qualche modo alle nuove tecnologie militari, che hanno fatto la grandezza degli Stati moderni. Un processo che, con la Rivoluzione Industriale, si è allargato al campo civile, fino alla situazione odierna.
Oggi, perciò, il rapporto del potere con il metodo scientifico è schizofrenico: da un lato gli serve parecchio e, di conseguenza, non solo non può reprimerlo ma, al contrario, è costretto a dargli spazio, dall’altro continua a temerlo. La storia delle istituzioni scolastiche ed universitarie è indicativa in questo senso. Dopo un lunghissimo periodo in cui sono state riservate ad una ristrettissima élite della società, la Rivoluzione Industriale ha costretto gradatamente il potere, per la necessità di una forza lavoro sempre più qualificata, ad ampliare notevolmente l’accesso all’istruzione e, di conseguenza, ad esporre un numero enorme di sudditi al temuto pensiero razionale. La dequalificazione della scuola e dell’università pubblica, sul modello non a caso anglosassone, è il risultato di questa componente schizofrenica del rapporto del potere con la scienza: offrire il meno possibile di istruzione, fidando nella legge dei grandi numeri per cui ci sarà comunque qualcuno che avrà raggiunto i livelli desiderati. Ma proprio il minimo indispensabile…
Il sospetto, perciò, che viene è che tutte le critiche allo “scientismo” presenti anche nel movimento rivoluzionario, paradossalmente, possano derivare in larga misura proprio dall’influenza della diffidenza del pensiero gerarchico contro il metodo scientifico, che porta contro ogni evidenza a vedere quest’ultimo come, citando l’articolo di Leoni, “una fede intollerante incapace di trarre ispirazione o semplicemente lasciare spazio ad ipotesi o tradizioni alternative”. Contro ogni evidenza, dicevo: a tutt’oggi non si conosce un solo caso, per esempio, di un astrologo messo a morte da un Tribunale di Scienziati, né che gli abbia chiuso lo studio. Si tratta di un sentire comune, che però non ha alcun corrispettivo fattuale. Il massimo che si possa dire è che un seguace del metodo scientifico spesso dica che determinate linee di ricerca sono false e/o infondate: ma perché non dovrebbe farlo, se questa è la sua opinione, magari validissima? Si giunge perciò persino da parte di libertari, senza accorgersene, ad invocare di fatto un principio di censura.
Giungiamo qui a Feyerabend, sul quale ho opinioni e valutazioni diametralmente opposte a quelle di Leoni: di là del fatto che non è il caso di far passare un liberal – nella migliore delle ipotesi – per un anarchico (d’altronde la cosa l’ha negata lui stesso a più riprese), qui mi limiterò solo a quello che ritengo il punto principale della questione. Vista alla luce delle riflessioni precedenti il suo pluralismo metodologico da un lato è pleonastico, dall’altro è censorio. Infatti, il contesto della storia della scienza – che lui stesso analizza e porta ad esempio ma senza trarne le dovute conclusioni – mostra come, in pratica, nessuno scienziato – caso mai strutture statali – ha mai impedito materialmente a chicchessia di seguire il metodo che preferiva; quindi, da questo punto di vista, si tratta di un appello pressoché inutile, a meno che si voglia sostenere che si debbano, con i soldi di tutti, finanziare senza batter ciglio le ricerche di chi intenda trovare un metodo per viaggiare nello spazio e nel tempo invocando con sedute spiritiche lo spirito di Doctor Who in un universo parallelo in cui lui esisterebbe davvero. È sempre successo il contrario: i portatori di superstizioni magico/religiose hanno e, dove possono, continuano ad impedire la ricerca scientifica, con metodi che comprendono la tortura e l’omicidio. Di conseguenza, l’anything goes, il “tutto va bene”, può avere un solo significato pratico: la richiesta di una censura sociale verso il metodo scientifico, che dovrebbe tacere le sue critiche verso metodi che ritiene sbagliati.
Insomma, un anarchico dovrebbe simpatizzare fortemente per il metodo scientifico, date le sue enormi valenze antigerarchiche. D’altro lato, ovviamente, deve lasciare piena libertà di espressione ad antivaccinismo, medicine alternative, antiOGM, diete alla moda, omeopatia, negazionismi vari, ipotesi cospirative, scie chimiche, ecc. Proprio per questo, però, tanto più deve rivendicare il diritto del metodo scientifico a dire la sua in merito. Detto per inciso, non è detto che in alcuni casi alcune di queste ipotesi riescano a superarne il vaglio, arricchendo le conoscenze dell’umanità.
Enrico Voccia